Fin dagli anni '50 del secolo scorso, il tema riguardante la dimostrazione scientifica dell'efficacia della psicoterapia ha visto tentativi operati da detrattori e sostenitori per avvalorare la propria tesi.
Studi e ricerche per validare i diversi tipi di approccio
Stante la difficoltà di giungere a protocolli e disegni sperimentali che garantiscano un accordo sufficiente sulle variabili intervenienti nel processo psicoterapico e sulla standardizzazione delle misurazioni, nel corso del tempo entrambe le tesi sono state sostenute da ricerche che hanno dato esiti opposti.
Negli ultimi decenni, sia per ragioni scientifiche, sia per ragioni pragmatiche, si stanno susseguendo protocolli di validazione e tentativi di misurazione di efficacia di singole tecniche psicoterapiche, spesso anche in connessione a singole aree diagnostiche. Ci si sta chiedendo quindi quali tecniche (e/o approcci) riescono ad avere migliori evidenze di efficacia rispetto ai disturbi d'ansia, o alla depressione, o al Disturbo Post Traumatico da Stress, o ad altra categoria diagnostica.
Tali ricerche, da un lato mi paiono doverose, dall'altro possono rischiare di polverizzare la concezione di processo psicoterapico e di limitare l'analisi a categorie più solidamente misurabili, se non vengono stabiliti i confini di validità e significanza delle stesse.
I risultati di una ricerca "dal passato"
Ricordo di aver letto, durante i miei studi di psicologia, i risultati di un'importante ricerca (ormai abbastanza datata) sull'efficacia della psicoterapia. La ricerca era approfondita, perché si basava non solo su valutazioni a inizio e fine trattamento, ma prevedeva anche dei follow-up successivi (studio longitudinale).
Ebbene, in estrema sintesi, tale ricerca portava alle seguenti conclusioni:
Basandosi su questi elementi, ricordo che un mio compagno di studi azzardò un'interpretazione ingenua ed istintiva: "Dunque la psicoterapia è indicata solo per chi non ha buoni amici a disposizione".
"Al centro della psicoterapia va messa la relazione"
Oggi, a distanza di tanti anni e dopo molti anni di studio e pratica di lavoro in ambito psicologico, mi sembra di poter affermare che il mio compagno si sbagliava, ma aveva comunque evidenziato un aspetto fondamentale, attualmente accettato dalla maggior parte degli indirizzi psicoterapeutici: al centro del processo psicoterapeutico va messa la relazione.
A seconda dei diversi approcci, il terapeuta lavora su schemi cognitivi ed emotivi del paziente, sui condizionamenti, sulle strutture inconsce (complessi, subpersonalità) e sulle dinamiche interiori (specie quelle disfunzionali e coattive), su eventuali traumi recenti o infantili, sugli effetti dell'ambiente familiare o su specifiche figure e modalità di “attaccamento”, sui legami disfunzionali e sull'analisi della comunicazione, sulle correlazioni fra diverse funzioni psichiche (istintiva, emotiva, cognitiva, creativa/immaginativa, sensoriale, intuitiva), sulla percezione e modalità di “costruzione” del mondo e dell'esperienza, sui conflitti esistenziali, i bisogni, le motivazioni profonde e sulle spinte autorealizzative, solo per declinare alcuni esempi.
Ovviamente la lista potrebbe proseguire per molte pagine, poiché tante sono le dimensioni individuate, teorizzate e coinvolte nel processo terapeutico. Quello che si vuole evidenziare è che l'ambito, il “campo energetico”, che veicola e collega gli elementi che strutturano via via il processo terapeutico è sempre e comunque la relazione.
Fin dalla nascita delle prime società umane, la relazione è ciò che ci ha permesso di crescere, sopravvivere ed evolvere, sia come specie sia come individui.
L'uomo come “animale sociale”, descritto da Socrate.
A ben guardare, anche la nostra interiorità è popolata di personaggi interni, quando pensiamo spesso “parliamo con noi stessi”. Molti di noi sono consapevoli di diverse porzioni e tendenze della propria personalità, spesso anche in disaccordo o aperto conflitto.
Nello spazio terapeutico, si ha la possibilità di agire e trasformare le dimensioni che strutturano la nostra personalità, grazie all'atmosfera di fiducia, di ascolto partecipato ed empatico ed anche alla presenza non giudicante alla quale dovrebbe tendere il terapeuta.
Possiamo quindi meglio contattare le nostre parti c.d. “disfunzionali” o male integrate della nostra personalità, scoprire gli aspetti più funzionali e addirittura i talenti che sentiamo di possedere.
In base alle motivazioni emergenti, possiamo quindi decidere di spostare elementi della nostra vita interiore ed esteriore, diventare più consapevoli, fiduciosi, a volte anche più coraggiosi, ma al tempo stesso scoprire i nostri limiti (diventare cioè umili – dove “umiltà” è intesa come radicamento e appropriata misura di sé, non come disvalore), fare pace con la nostra concezione del tempo e della vita.
I bisogni di ognuno di noi
Alcuni di noi hanno bisogno di ricontattare i propri desideri, per tornare a volare, altri si portano zaini pesantissimi colmi di colpe antichissime e spesso sopravvalutate, scadute o persino inesistenti, altri sono sfiduciati o timorosi. Ed anche in questo caso l'elenco potrebbe allungarsi per pagine e pagine.
Sono convinto che fin da subito, nell'ambito di un percorso terapeutico, sia fondamentale trattare il tema della cura di sé, partendo dalla scoperta (in alcuni casi molto faticosa) di ciò che la persona ama, ciò che la fa sentire libera e contenta. Per qualcuno potrebbe essere dipingere o scrivere, per altri passeggiare senza meta o praticare uno sport, per altri studiare, progettare un nuovo lavoro o un hobby, per altri realizzare sogni dimenticati nel cassetto, e così via.
Anche i “compiti” che vengono talvolta affidati ai clienti/pazienti, durante il percorso, sono fondamentali in questo senso. La persona viene stimolata ad occuparsi di sé, fin dalle fasi iniziali, a contribuire attivamente, anche al di fuori della seduta, alla propria terapia.
Ristabilire un rapporto accogliente, amorevole e stimolante con sé stessi è centrale per tutti, è un elemento fondamentale nella ricerca di felicità ed equilibrio interiore.
Spesso capita invece che ci trascuriamo, colti da una frenesia insensata (ma diffusa, purtroppo) oppure anche sulla scorta di esempi familiari (veri e propri “imprinting”) impostati sulla rinuncia e sul sacrificio malinteso.
Riappropriarsi di sé
Anche il mondo delle nostre relazioni beneficia di un nostro “riappropriarci” di noi stessi, della nostra attenzione a noi stessi ed alla nostra vita. Infatti quanto più ci trascuriamo, tanto più tendiamo a spostare (anche inconsapevolmente) l'attenzione al di fuori di noi, aspettandoci risposte e risarcimenti impossibili dagli altri o dalle nostre realizzazioni materiali (una promozione, un bel voto a scuola o qualsiasi obiettivo raggiunto).
In realtà solo noi possiamo curare in profondità la nostra persona, gli altri, le nostre relazioni, possono essere il coronamento della nostra vita (perché, come ricordato prima, da umani, tendiamo verso l'altro), ma sicuramente, anche la cura della persona più amorevole e amata, non può sostituirsi alla cura di cui noi necessitiamo da parte di noi stessi.
Quando, durante il percorso terapeutico, emerge (o ri-emerge) tale attitudine nella persona e trova spazio nella vita quotidiana, ecco che si avverte, solitamente da parte di entrambi (cliente/paziente e terapeuta), uno degli indicatori prognostici più favorevoli.
Davide Fuzzi - responsabile AnimaéPsiche Seacoop
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