Mi piace pensare che il mondo in cui viviamo (o meglio la sua componente antropica) stia attraversando la propria adolescenza.
In pochi decenni si sono susseguiti enormi e rapidissimi cambiamenti sociali, economici, tecnologici. Il mondo ha sperimentato tante rivoluzioni (o comunque tanti tentativi di rivoluzione).
Il secolo scorso è stato caratterizzato da grandi contrapposizioni:
E l'elenco potrebbe proseguire.
Alcuni di questi opposti (o presunti tali) in realtà originano da periodi storici e sociali antecedenti, ma nel '900 è avvenuto uno scontro di sistemi, valori, progetti e ideali di vita, senza precedenti.
Abbiamo visto a distanza di pochi anni guerre mondiali cruentissime che hanno cambiato per sempre il corso della storia, vissuto il periodo angosciante della guerra fredda, assistito alle lotte per la liberazione di popoli interi e per i diritti umani universali.
Al contempo la pedagogia e la psicologia si sono imposte come discipline autorevoli, a livelli di diffusione crescente, e indicando una strada importante. Una possibilità verso l'educazione permanente dell'uomo.
Infine lo sviluppo e la diffusione esponenziale della tecnologia hanno reso il mondo quello che oggi viene definito “il villaggio globale”.
Oggi tutto il mondo c.d. civilizzato è online: non solo i mercati finanziari, i politici o gli scienziati, ogni singolo essere umano, fin dall'infanzia ha a disposizione strumenti elettronici di connessione e interazione.
Risulta fin troppo evidente la potenzialità positiva della libera circolazione e condivisione di informazioni, ma vi sono alcuni rischi.
Il geniale Marshall McLuhan nel suo lavoro pionieristico e visionario, considera i media come estensioni dei sensi e sostiene che ciascun mezzo nel momento in cui “aumenta” un senso, provoca un ottundimento degli altri, alterando così l'equilibrio sensoriale.
È comprovato che nell'uomo moderno vi è un deciso primato della visione. In passato, ad esempio, l'ascolto era molto più importante: si pensi all'importanza cruciale del linguaggio parlato e della trasmissione orale per lo sviluppo della società umana fin dai suoi primordi.
Ma oggi, a ben guardare, sta accadendo un fenomeno ancora più estremo (almeno ai miei occhi).
Utilizzando sempre più abitualmente e massivamente la comunicazione a mezzo social (chat, condivisioni di immagini e contenuti vari, ecc.) la nostra persona socializzante subisce di fatto una continua scomposizione e ricomposizione al fine di adattarsi al mezzo (come aveva ragione il buon McLuhan!).
Avviene una vera e propria dematerializzazione e digitalizzazione della nostra attività sociale ai fini della immissione in rete.
Proprio come la musica negli anni 90 (mp3 e altri formati digitali compressi) la nostra comunicazione, e persino la nostra identità vengono scomposte e ricomposte, digitalizzate, appunto.
Nel villaggio globale la comunicazione è di fatto veicolata dall'immagine, dall'apparenza. Manca l'approfondimento che necessità di tempo per “rimembrare” (ricordare ma anche dare membra, quindi corporeità e dinamicità) e sperimentare.
A volte mi trovo a considerare che l'adolescenza è un'età che si presta a simboleggiare un potenziale stravolgimento metaforicamente paragonabile allo scenario storico-sociale appena tratteggiato.
Siamo un po' bambini senza esserlo veramente, siamo già a tratti adulti senza sentircelo ancora addosso.
L'adolescenza secondo Freud è l'ultima possibilità evolutiva naturale in cui “sistemare” la personalità e le sue ferite. In ogni caso (comunque la si pensi sulla psicanalisi) l'adolescenza è la porta per l'età adulta.
Le società tribali non avevano l'adolescenza. Esistevano al contrario riti di iniziazione che costituivano il confine fra la vita da bambino ed il mondo adulto.
L'adolescenza, come la conosciamo oggi. è qualcosa di inedito, sia per pregnanza sia per l'allungamento della sua durata. Le ultime generazioni presentano una vera e propria mitologia dell'adolescenza. A molti capita di sentirsi eterni adolescenti. Vi sono intere sezioni della letteratura e della filmografia moderna che trattano della mitica età di passaggio.
L'adolescenza è vissuta anche come la posizione esistenziale di totipotenzialità: ci si sente un po' come in cima ad un alta vetta con infiniti possibili sentieri fra i quali scegliere, per scendere a valle.
Ma se sbaglio? Potrò tornare indietro?
Se sbaglio la scuola, la facoltà universitaria, il lavoro…
È una condizione che può persino portare allo stallo interiore.
Questo accade (o comunque è esacerbato) anche in virtù dell'atteggiamento che tutta la società mantiene verso l'adolescenza e la c.d. gioventù.
Per molti è un cruccio, un tormento, ma in retrospettiva anche un'eterna nostalgia.
Alcuni adulti ricordano le vittorie, le fatiche che danno frutti, altri le occasioni perse, e così via.
In ogni caso dobbiamo fare i conti con aspirazioni, aspettative (anche o soprattutto altrui) più o meno risolte e ciò spesso causa un sovraccarico.
Il ruolo del genitore cambia totalmente durante questa fase di vita: occorre considerare il figlio un “giovane adulto in formazione”.
Mano a mano che il bambino cresce, l'atteggiamento dovrebbe variare gradualmente dall'accudimento al riconoscimento della responsabilità reciproca.
Sinceramente penso che il modo migliore per relazionarsi agli adolescenti sia quello di cogliere l'occasione di guardarsi dentro, di scoprire, parallelamente a loro, ciò che abbiamo lasciato indietro, di guardare la nostra vita più che assediare la loro.
La rivoluzione copernicana si attua quando riesco a passare da un paradigma dell'accudimento a un nuovo paradigma in cui io ci sono, mi propongo quale fonte sicura (ma non infallibile o onnipresente!) di aiuto pratico, conforto, amore e sostegno (anche, ma non solo, materiale).
Bisogna arretrare, favorire la liberazione graduale dal vincolo reale o immaginario che sia.
L'immancabile investimento narcisistico inconscio che il genitore tende ad avere sui propri figli, porta a eccessi di aspettative e di preoccupazioni che incagliano lo scambio comunicativo e appesantiscono la sfera emotiva.
Pertanto sarebbe davvero importante che ogni genitore potesse lavorare sulla propria consapevolezza e sulla rifocalizzazione dei propri obiettivi e desideri vitali.
Ovviamente le parole di taglio sono sempre le stesse: empatia connessione risonanza.
Non si tratta di rendersi “indisponibili” per favorire l'autonomia e la liberazione dei figli. Io (genitore ed essere umano) ci sono per te (pur nei miei limiti e pur mostrandoti che non ci sono sempre, basta che ti mostri che sei prioritario!).
Vi sono anche differenze culturali: in alcuni paesi, ai nostri occhi più “spartani” o “freddamente vichinghi”, la società è organizzata per l'uscita del giovane dalla famiglia di origine verso i 18 anni.
Penso che dovremmo provare ad imparare da queste esperienze, pur nel rispetto della nostra cultura e dei nostri valori. Ispirarci a un modello diverso potrebbe forse correggere gli eccessi del nostro sistema educativo che, spesso indugiando nell'accudimento e nell'apprensione eccessivi, rischia di deresponsabilizzare e talvolta persino di imbrigliare l'energia vitale dei giovani.
In definitiva ciò che conta è la presenza affettiva e sostanziale, la libertà reciproca che co-costruisco, non la creazione di abitudini di accudimento eccessivo e fuori tempo.
Al tempo stesso si deve garantire l'espressione delle differenze individuali: un figlio può avere esigenze di aiuto ed età di maturazione molto diversa dal fratello/sorella.
Da ultimo ritengo che in tutti gli attori del processo (genitori, insegnanti, educatori, adolescenti di tutte le età) occorra stimolare una riflessione intima sulla responsabilità (intesa come capacità di rispondere), spesso confusa con i doveri impliciti che il nostro mondo interiore ed esteriore tende a presentarci senza un'adeguata possibilità di critica e revisione.
Davide Fuzzi, psicologo e psicoterapeuta “AnimaéPsiche”
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